martedì 30 gennaio 2007

Radio Gold - Le vicende dei portuali di Genova in un film documentario

Si fa sempre più stretto il legame tra Genova e Alessandria, grazie all'accordo raggiunto tra le due Province e al progetto di retroporto che dovrebbe essere realizzato nel sud della nostra provincia. Non mancherà di suscitare interesse, dunque, anche nell'alessandrino il film documentario "De Mà", dedicato ai portuali di Genova. Il regista e giornalista romano Pietro Orsatti (foto) lo ha presentato sabato pomeriggio nel capoluogo ligure, in un locale frequentato dai camalli genovesi nella zona del Porto Vecchio. Per saperne di più potete visitare il sito filmdema.blogspot.com.

VAI A ASCOLTARE IL SERVIZIO SU RADIOGOLD

lunedì 29 gennaio 2007

Il film

A causa di numerose pressioni e intimidazioni ricevute da alcuni dei lavoratori che hanno rilasciato dichiarazioni nel film, il documentario, per ora, viene ritirato da autore e produzione per tutelare tutte le persone coinvolte

domenica 28 gennaio 2007

Dalla rivista mensile MicroMega in edicola dal 12 gennaio

CAMALLI, A RISCHIO DELLA VITA


Il caporalato, camuffato da lavoro interinale, è entrato anche nelle Compagnie dei lavoratori portuali, un tempo simbolo della difesa dei diritti degli operai. Ormai anche il sindacato - spesso seduto nei cda delle Compagnie e delle agenzie di lavoro in affitto - mette al primo posto la produttività.

E intanto i lavoratori rischiano la vita ogni giorno.

Qualcuno l'ha già persa, come Luca Vertullo.



di MARCO PREVE


Un morto scomodo. Circondato da imbarazzi e silenzi, proprio nei giorni in cui il presidente della Repubblica invita a "spezzare la catena delle vittime del lavoro".

Se si vuole un segno forte, tangibile, e preoccupante, del malessere e dell'insofferenza che agitano larga parte del mondo del lavoro, quello che produce i fischi e le contestazioni ai leader del centro-sinistra e dei sindacati, allora val la pena di fare un giro sul fronte del porto.

L' universo dei camalli, quelli di Genova come di tutti gli altri scali italiani, dopo la rivoluzione forzata degli anni Novanta con la privatizzazione delle banchine, oggi è solcato da una serie di profonde contraddizioni. Da ultimo baluardo a difesa dei diritti degli operai, simboli dell'antifascismo, feroci accusatori dello sfruttamento dei lavoratori, oggi le Compagnie vivono una trasformazione in senso manageriale, con legami sempre più intrecciati con la politica, il sindacato istituzionale e la grande finanza, che rischiano, e anzi lo stanno già facendo, di corrodere l'antica autorità morale dei camalli.

(LEGGI L'intero articolo...)

Trailer del film

Anche il trailer del film, a causa delle pressioni e intimidazioni ricevute da alcuni dei lavoratori che hanno rilasciato dichiarazioni nel documentario, viene, per ora, ritirato

venerdì 26 gennaio 2007

PER ORDINARE IL DVD



DVD
costo euro 15 compresa spedizione postale
inviare conto corrente postale numero 25402280
intestato a ASSOCIAZIONE MAREA

E' molto importante SPECIFICARE CAUSALE "DVD FILM DE MA" e indicare dove spedire il Dvd

CD Dvix (formato Xvid)
costo euro 10 compresa spedizione postale
inviare conto corrente postale numero 25402280
intestato a ASSOCIAZIONE MAREA

E' molto importante SPECIFICARE CAUSALE "Dvix FILM DE MA" e indicare dove spedire il CD

lunedì 15 gennaio 2007

Locandina

"De mä", oltre il confine - articolo su Aternativ@mente

Lavoro
lunedì 15 gennaio 2007
di Alessandro Ambrosin

Intervista a Pietro Orsatti, regista del video inchiesta "De mä", trasformazione e declino - un film sulla fine del lavoro portuale a Genova.


Leggi tutto l'articolo

giovedì 11 gennaio 2007

Ordina il DVD o il CD Dvix



DVD
costo euro 15 compresa spedizione postale


E' molto importante SPECIFICARE CAUSALE "DVD FILM DE MA" e indicare dove spedire il Dvd

CD Dvix (formato Xvid)
costo euro 10 compresa spedizione postale


E' molto importante SPECIFICARE CAUSALE "Dvix FILM DE MA" e indicare dove spedire il CD

Per ordinarlo scrivimi orsatti.pietro@gmail.com

De Mä - di cosa parla il film

Due linee narrative distinte ma fra loro intrecciate. La prima racconta la vicenda umana e le peripezie lavorative di alcuni lavoratori portuali, di diverse generazioni, e dei loro familiari. Le lotte, la fatica, i sogni, le aspettative.

La seconda linea è rappresentata da una rigorosa inchiesta sul mondo della portualità oggi, sulla trasformazione del modo di produrre e di lavorare nel nostro paese.


E' un documentario che racconta la trasformazione della nostra società attraverso lo sguardo di una città simbolo, centrale per la sua vocazione mercantile e produttiva, aperta al mondo attraverso il suo porto e profondamente ancorata alla storia europea e del Mediterraneo attraverso il mondo dei suoi lavoratori.

Punto centrale il porto, la sua relazione con la città, la sua rete di scambi non solo mercantili. E il lavoro e di dove è finita l'aristocrazia operaia italiana.

Di "aristocrazia operaia" se n'è parlato in particolare per lavoratori di una città: Genova. Con il nome di "camalli" - erano riuniti in una consorteria organizzata con più di mille anni di storia, i lavoratori del porto di Genova a partire dagli anni ottanta sono praticamente scomparsi. Oggi "camalli" è il nome di una trattoria o di un circolo Arci in vena di nostalgie, mentre il lavoro in porto si è frammentato e progressivamente trasformato in precario. Questa categoria si è infranta e dissolta nel corso degli anni '80, dopo una stagione di lotte e di sconfitte che hanno ridefinito la natura sociale e produttiva della stessa città. Da città produttiva e industriale a città terzializzata ma con ampie aree di disagio sociale, da grande porto con aspirazioni internazionali a semplice porto di interscambio (dopo venti anni di diminuzione dei tonnellaggi delle merci in transito solo ultimamente si nota una ripresa anche se molto parziale e legata quasi esclusivamente al terminal container Messina già citato), da area di cantieristica navale in pieno sviluppo a area in progressiva dismissione degli impianti industriali.

Quello che è successo e succede a Genova è quello che è successo continua a succedere all’intero paese. L’impatto della liberalizzazione del mercato del lavoro non si è trasformato in stimolo verso l’innovazione, la crescita reale, lo sviluppo non solo strettamente finanziario ma produttivo delle imprese. A Genova, forse, è iniziato ad accadere solo prima quello che sta accadendo oggi in tutta Italia. La mutazione verso il terziario “forzato” di una città a vocazione fortemente industriale e produttiva non è per forza un fattore positivo, anzi può rappresentare un indice di declino. E la trasformazione del mondo del lavoro (a Genova come nel resto d’Italia il 40% dei nuovi contratti sono precari) può determinare un cambiamento sociale non facilmente gestibile con tensioni e disagio, uno svuotamento culturale, lo svilimento di istituzioni pubbliche che hanno rappresentato la storia democratica di una città.

Genova è un paradigma dell’Italia di oggi: il centro ancora imbellettato per il G8; il porto storico diventato uno dei salotti buoni grazie alle Colombiadi mentre il porto industriale e commerciale è decontestualizzato dal resto della città e connesso quasi solo esclusivamente con la sopraelevata che divide e non ricuce (senza parlare di Voltri che è “oltre” la città); la città vecchia in parte degradata e fatiscente e in piena emergenza sociale e in parte trasformata in area commerciale radical chic; i quartieri popolari costruiti a dispetto (quasi sempre in deroga) dell’evidente rischio idrogeologico; i lavoratori stranieri che affollano (in regola e clandestini) moli e cantieri, perché costano meno, perché sono “mobili” o forse solo “facilmente riciclabili” o meglio sfruttabili.


Genova è quella città che guarda dall’alto una notte il mare e una petroliera che brucia in rada: erano i primi anni ’90 e la Haven esplose, bruciò e affondò davanti alla città, causando il più grave disastro ambientale mai verificatosi fino allora nel Mediterraneo. Genova guardava la Haven bruciare dall’alto delle sue colline, lontana: una città di mare che si era dimenticata il mare, una città di porto che rifiutava l’origine del proprio successo e benessere, una città di industria e commercio e lavoro che aveva dimenticato il proprio Dna.

mercoledì 10 gennaio 2007

Materiali

Minibanner





Banner





Locandina






Clicca sulle immagini e salva i file

Per proiezioni, informazioni e contatti

Per proiezioni, informazioni e contatti:

Pietro Orsatti
orsatti.pietro@gmail.com - +39 349 4065977

SenzaMedia
senzamedia@gmail.com

martedì 9 gennaio 2007

Introduzione

Per elaborare questo progetto siamo partiti da una riflessione. L'attuale modello occidentale, definizione estremamente riduttiva di un insieme di aspetti politici, economici, culturali e psicologici, si è infranto contro la complessità della torre di babele dei localismi, culture e bisogni. Non basta, come fattore di giudizio del grado di sviluppo reale di una società, la potenza militare, il tasso di crescita di prodotto interno lordo di una nazione o del cambio favorevole di una moneta. "Come mai l'America, la terra delle opportunità, è potuta scivolare in coda alla classifica delle nazioni sviluppate – e a forte distanza dai paesi europei – per diseguaglianza di reddito e povertà? La risposta potrebbe essere trovata nel modo in cui gli americani sono soliti spiegare il fatto che alcuni diventano ricchi, mentre altri restano poveri. Gli statunitensi hanno universalmente adottato un atteggiamento ultraliberista rispetto agli affari e al commercio: se a tutti viene offerta l'opportunità di studiare, se si lascia che il mercato agisca liberamente e se ci si assicura che lo Stato non influisca troppo con il suo funzionamento, chi è determinato e capace riesce a raggiungere il vertice con le proprie forze. Viceversa, chi non è abbastanza determinato o capace non farà molta strada, ma questo è nella natura delle cose. L'America è sempre stata la terra delle "pari opportunità", non quella degli "uguali risultati". Come recita un vecchio adagio americano, "o nuoti o anneghi" (Jeremy Rifkin - Il sogno europeo). Lo stesso concetto espresso da Rifkin, il "o nuoti o anneghi" come motore dello sviluppo statunitense, si è infranto – e ha mostrato tutti i suoi limiti - nel 2005 con la terribile alluvione di New Orleans causata dall'uragano Katrina: i volti e le voci degli esclusi che vivevano nei sobborghi della città americana sono rimbalzati sui media di tutto il mondo a dimostrazione di un fallimento di un modello economico, politico e culturale che non tiene conto, per meglio dire rimuove, una grana parte della popolazione non solo dalla suddivisione e distribuzione e di ricchezza, ma addirittura da quel immenso diario collettivo e quotidiano rappresentato dall'informazione. Prima dell'uragano per la società americana i poveri e gli esclusi dei sobborghi di New Orleans non esistevano: come se un essere umano ignorasse volutamente un proprio arto, una mano, un occhio, un organo interno e vitale.

Gli Stati Uniti e il loro modello sociale ed economico apparentemente possono sembrare molto remoti visti dalla nostra realtà, dall’Europa, Dall’Italia. Eppure il modello iper-liberistra sintetizzato da Rifkin nel “o nuoti o affoghi, da circa quindici anni si è trasformato nell’unico modello di riferimento per l’intera sistema occidentale trasformandosi da schema socio-economico di una determinata cultura e Nazione a una vera e propria ideologia globale. Non è un caso che lo stesso Wall Street Journal – che notoriamente non è una fanzine no global – a metà degli anni ’90 abbia paragonato il fenomeno della globalizzazione, e delle drammatiche ristrutturazioni interne alle grandi corporation multinazionali, alla rivoluzione culturale cinese, con tanto di processi sommari e sedute di auto-denuncia da parte di manager e quadri non allineati con il grande processo in atto a seguito della caduta del sistema del “male”, del modello politico economico del blocco sovietico.

Non è necessario appartenere o simpatizzare per i no global per rendersi conto che questa ideologia, il Mercato come panacea di ogni male, si è radicato anche da noi, se pur in una sua forma semplificata e spesso primitiva: la corsa alle privatizzazioni, alla mobilità, alle ristrutturazioni, alla riduzioni di vincoli e regole ha spianato in una manciata di anni più di 50 anni di welfare e architettura istituzionale e economica realizzati con la nascita della Repubblica per coniugare e rendere possibile il matrimonio – a volte azzardato, basti guardare molte delle distorsioni interne all’Iri e alla Cassa del Mezzogiorno – fra pubblico e privato.

Da questa premessa abbiamo sentito l’esigenza di individuare una metafora adeguata, un ambito narrativo simbolico forte, per descrivere la fase storica di trasformazione che stiamo vivendo, cercando anche di capire la particolarità, all’interno di un sistema globalizzato, del quadro italiano.

Questo progetto, le informazioni riportate nelle pagine che seguono, sono il frutto di un lavoro decennale di inchieste giornalistiche realizzate per testate come Diario, la Agenzia Dire, PopolareNetwork e la rivista Modus a partire dai primi anni '90.

Molte delle intuizioni, individuate a partire dal '97 in un'inchiesta/reportage nel porto di Genova realizzata per Diario, si sono dimostrate poi assolutamente vere: si stava già tendendo alla deregolamentazione del lavoro nei porti e nei cantieri navali, all'abbattimento delle già non rigide pratiche per la sicurezza sia della navigazione che del lavoro in molte aree portuali, all'applicazione delle "gabbie salariali" utilizzate ad esempio nella prima fase dello sviluppo del terminal di Gioia Tauro, l'uso sempre più indiscriminato del lavoro precario. Soprattutto emergeva la trasformazione sociale e urbanistica profonda di quella da sempre considerata la maggiore città a vocazione marittima e portuale d'Italia: Genova. Trasformazione oggi davanti agli occhi di tutti.

Trasformazione o declino? Da questa domanda parte il lavoro che ci proponiamo. Una domanda non soltanto retorica, ma fondata sulla vita, e la pelle, di chi in quella società urbana ci vive, che ha visto trasformarsi modi e forme di lavoro e di autorappresentazione sociale, che in gran parte ha visto cancellare in poco più di dieci anni la propria storia.

Ci sono già stati dei tentativi anche recenti di affrontare la "metafora" genovese, anche se solo attraverso una ricostruzione storica e affidandosi esclusivamente a materiali audiovisivi di repertorio: sto parlando di "Andiamo a Genova" di Silvia Savorelli realizzato con la C.G.I.L. il Centro confederale regione Liguria e la Camera del lavoro Metropolitana di Genova con la collaborazione dell'Archivio della Liguria fondazione Ansaldo. Si tratta di un lavoro rigoroso che però non affronta l'oggi, non racconta la trasformazione in atto, le speranze e le esigenze emerse negli ultimi dieci anni. E soprattutto non viene affrontato il dato simbolico che una realtà come quella di una città portuale in generale, e di Genova in particolare, assume nel fotografare la società non solo italiana ma anche europea.

Affrontare in particolare il mondo del lavoro dei portuali genovesi, significa raccontare non solo la storia di uno o più casi di lavoratori, ma entrare nel processo umano di relazioni familiari e sociali: l'insieme dei fattori che costituiscono l'ossatura di una città e di un paese. Dietro a ogni lavoratore c'è la storia di una persona che va ben oltre al ruolo che questa ha nella produzione, nell'economia, nella crescita o nel declino di un sistema di semplice mercato.

Nelle pagine che seguono vengono indicati, per linee generali, i fattori sui quali si basa questa proposta. Si potevano avanzare molte ipotesi di lavoro: quella di realizzare un'inchiesta sulla realtà del solo aspetto del lavoro portuale limitandosi a un reportage veloce di denuncia sulla deregulation nel settore occupazionale; oppure si poteva affrontare l'emergenza emersa negli ultimi mesi in relazione alle lotte dei lavoratori portuali in tutta Europa parlando di Genova solo come di una dei tanti porti coinvolti; si poteva anche limitare il progetto alle questioni della sicurezza e dell'ambiente; o ancora si poteva fare un'operazione di ricostruzione storica sul mondo dei camalli. In realtà tutte queste ipotesi sono valide, ma ognuna è limitata. Quello che si vuole realizzare è un documentario che racconti tutti questi aspetti all'interno di un unico percorso: narrare la trasformazione della nostra società attraverso lo sguardo di una città simbolo, centrale per la sua vocazione mercantile e produttiva, aperta al mondo attraverso il suo porto e profondamente ancorata alla storia europea e del Mediterraneo attraverso il mondo dei suoi lavoratori.

Pietro Orsatti

La situazione attuale - contesto economico e sociale

Il 16 gennaio 2006 i lavoratori portuali di tutta Europa si sono riuniti a Strasburgo per protestare contro la proposta di una direttiva comunitaria per la liberalizzazione e deregolamentazione di fatto dei contratti di lavoro nei porti dell'Unione Europea. La manifestazione si è trasformata in breve in un assedio della sede del Parlamento, sfociando purtroppo in scontri con la polizia.

Non è la prima volta nell'ultimo anno che si arriva a forma di proteste anche estreme nei porti del nostro continente: a settembre 2005 le manifestazioni, i blocchi e gli scontri in Francia e in particolare a Marsiglia; a febbraio 2005 mesi di mobilitazione si sono trasformati nel blocco delle operazioni di carico e scarico anche di mezzi sui traghetti in Grecia e in particolare nel porto di Patrasso; manifestazioni, assemblee, scioperi si sono verificati anche in Olanda, Spagna e in Germania ad Amburgo.

I punti chiave della protesta, riassunti per grandi linee, e delle richieste dei lavoratori sono essenzialmente tre: contratto collettivo e forte limitazione all'uso di contratti stagionali e/o comunque precari; sicurezza del lavoro e assistenza in ambito infortunistico; riconoscimento e riaffermazione del diritto di rappresentanza sindacale. La direttiva proposta dal Parlamento Europeo, di fatto, intende intervenire, liberalizzando, "sull'accesso al mercato dei servizi portuali", quindi sulla loro liberalizzazione. Si tratta di una specie di "Bolkestein" destinata ai porti, che mira a legalizzare l'"auto-assistenza", cioè a permettere agli armatori di utilizzare il proprio personale marittimo per le operazioni in porto, a cominciare dal carico-scarico merci e dalla manutenzione. Trasferendo sulle banchine la giungla di supersfruttamento che impera a bordo con l'utilizzo di personale spesso senza diritti perché reclutato con il paravento di bandiere-ombra in Paesi poverissimi. A giudizio dei sindacati, si sarebbe trattato solo in apparenza di una liberalizzazione dei servizi: in realtà, ciascun Paese perderebbe il controllo dei propri moli e li trasformerebbe in una sorta di terra di nessuno dove avrebbero mano libera i grandi monopoli internazionali, magari con un pulviscolo di imprese paracadutate a sostituire le imprese di casa nostra. E' evidente che l'operazione ha tutto il sapore del dumping sociale e apre la strada a una recrudescenza di incidenti sul lavoro, perché la direttiva non prevede nessuna qualifica specifica per questi marittimi che si "auto-assistono", sulla nave ma anche a terra. Il testo presentato paradossalmente non soddisfa nemmeno più gli armatori, le società di carico-scarico e i gestori dei porti (che in Europa hanno situazioni molto diverse fra loro, poiché si spazia da porti pubblici a porti privati, passando per società autonome o municipali). Gli imprenditori rimproverano alla direttiva la troppa burocrazia e "l'insicurezza giuridica" che introdurrebbe. In effetti gli armatori si troverebbero costretti a dover sottostare a regole più severe in quei porti di nazioni che intervengono pubblicamente nella gestione dei porti stessi e quindi dando continuità a quel minimo di garanzie che ancora si incontrano, a volte, nella UE. Nonostante tutto anche nel testo della delibera rimane libertà ai paesi che gestiscono pubblicamente le attività portuali a non dover per forza privatizzare selvaggiamente settori così strategici anche a livello della sicurezza e ambientali delle arre territoriali dove i porti risiedono. Queste ultime tracce di regolamentazione che erano inserite nel testo presentato alla Ue, non potevano soddisfare del tutto chi da tempo chiede a gran voce la totale liberalizzazione del settore.

D'altronde, non sono stati solo i portuali a battersi contro la direttiva presentata dal Commissario europeo ai trasporti De Palacio, tornata all'esame dell'assemblea di Strasburgo per la seconda volta in neanche tre anni: basti dire che la proposta presentata dalla Commissione è stata impallinata da 532 no (mentre i sì sono stati appena 120 con 25 astenuti). Il provvedimento, dopo mesi e mesi di interminabile taglia e cuci per ripresentare un testo già bocciato in passato (2003), era tornato ad essere valutato come inaccettabile: fino al punto che Josep Borrell, presidente dell'Europarlamento bollando la "De Palacio 2" come "una direttiva riscaldata, che è stata messa in forno e servita nuovamente", ha dichiarato che la Commissione avrebbe dovuto nemmeno ripresentarla. Ma non è affatto scontato che non venga rielaborata una proposta nei prossimi mesi, vista anche la mole del business rappresentato dal trasporto marittimo e dalla fortissima lobby degli armatori/assicuratori/distributori presenti in Europa e dalle pressioni alle liberalizzazione avanzate sia in sede di WTO e sia dal Consiglio europeo di Lisbona nel 2000 che si è pronunciato per la creazione di regole assolute di mercato e di concorrenza in un settore così delicato.

La proposta di direttiva, poi, non è giustificata dalla necessità di intervenire per il rilancio e il risanamento del settore e infatti non si sta vivendo un periodo di crisi del comparto dei traffici marittimi e di conseguenza della possibile crescita dei porti europei. L'attività portuale è molto significativa in tutta l'Unione europea, che conta ad oggi 1116 porti. Il primo paese portuale è la Gran Bretagna, seguita dall'Italia e dalla Francia. Nei porti dell'Unione europea, con un traffico di più di 1,5 miliardi tonnellate movimentate all'anno, con solo in Italia 12mila dockers occupati, che rischiano in caso passi la linea avanzata in questi anni di perdere il lavoro o almeno di subire le conseguenze di una concorrenza senza pari da parte dei marittimi con contratti al ribasso. Una situazione che i lavoratori di tutta Europa hanno valutato come inaccettabile alla luce anche dell'enorme riduzione dei posti di lavoro attuata negli ultimi anni. Solo in Italia, infatti, si parla di una taglio occupazionale (tramite pensionamenti anticipati) di circa 20.000 unità.

"Fra il 1983 ed il 2001 oltre 20.000 lavoratori di quelle che allora venivano chiamate Compagnie portuali, Enti e Aziende Mezzi Meccanici sono usciti dal lavoro attraverso provvedimenti di prepensionamento. La forza lavoro all’interno dei Porti italiani, nell’arco di meno di vent’anni, è cambiata nella misura dell’80%, al punto che oggi l’età media degli addetti presenti nei porti può essere stimata intorno ai 30/35 anni. (...) Gli Enti Portuali si sono ritirati da ogni funzione operativa, trasformandosi in Autorità Portuali e le Compagnie Portuali, che operavano come organismi “di fatto” di natura pubblica, sono diventate imprese di diritto privato, mentre la gestione delle operazioni portuali è stata affidata a società private. E’ difficile trovare nel contesto italiano un processo analogo di devolution, di privatizzazione e di apertura al mercato così radicale e contemporaneo" (Opzione Mediterraneo - Ancip 2006).

Se prendiamo in considerazione soltanto l'area geografica per noi italiani più rilevante, il Mediterraneo, constatiamo che è in crescita sia la popolazione che la richiesta di materie prime e energia. Dal 2000 al 2025 L'Agenzia Europea per l'ambiente prevede una crescita pari al 40% del fabbisogno energetico nei paesi che si bagnano nel Mediterraneo a parità di indice di sviluppo. E la questione energetica significa petrolio. Dal 2000 a oggi, nonostante la crisi in Medio Oriente, il traffico marittimo di idrocarburi è sensibilmente aumentato. Si tratta di un settore enorme. Già negli anni '90 si movimentava nel bacino il 25% del traffico marittimo mondiale e oggi si sta per raggiungere la soglia del 30%. Analogo il tasso di crescita sia per il trasporto di altre merci che, anche se in modo meno sensibile, di passeggeri.

Perché Genova


La situazione italiana è molto particolare. Anche perché di fatto un processo di deregolamentazione del settore e in particolare di quello dei dockers nostrani è in atto da almeno 15 anni. In Italia già esistono forme di "auto-assistenza", ad esempio nel terminal container genovese dell'armatore italiano Fratelli Messina (fra i più grandi di Europa e forse il maggiore in Italia), che oltre a gestire la propria flotta conduce direttamente anche le operazioni più strettamente portuali del trattamento delle merci. Inoltre realtà a "gabbie salariali" con contrattualizzazione disomogena e precaria sono state applicate per molto tempo anche nel principale porto di inter-scambio di container italiano, Gioia Tauro. Senza poi parlare delle privatizzazioni di sempre più ampi servizi strategici (manutenzione e sicurezza) di aziende portuali.

Tutto questo in un quadro economico di declino del settore che si sta vivendo proprio negli ultimi tempi. "Nei primi mesi del 2006 si deve però constatare che la crescita “arrembante” dei porti del Mediterraneo registrata allora si è in buona parte affievolita, in particolare in Italia. Al contrario, i porti del Nord Europa sembrano avere abbandonato il ritmo lento di incremento dei traffici degli anni ’90, confermando ulteriormente il loro ruolo di guida del continente. Guardando poi all’evoluzione del commercio estero mondiale si può apprezzare l’esplosione dei mercati dell’estremo oriente ed in particolare dell’intenso flusso di importazioni ed esportazioni tra i Paesi europei e quelli collocati in quell’area. A tal proposito si nota una spiccata vocazione dell’Olanda, quale porta di accesso per le merci provenienti o dirette verso l’Asia orientale, subito seguita dalla Germania e dal Belgio. I Paesi del Mediterraneo sembrano dunque non avere compreso, o quanto meno non approfittato in questi anni, del vantaggio competitivo legato alla loro posizione strategica lungo le principali linee di connessione marittima tra Asia, Europa e Nord America. Lo stallo del Mediterraneo non è comunque generalizzato. Infatti se, da una parte, l’Italia e la Francia sembrerebbero attraversare una fase di rallentamento, dall’altra, la Spagna sembra aver imboccato un percorso di progressivo miglioramento della propria dotazione logistica di supporto, con evidenti ricadute in termini di flussi aggiuntivi “conquistati""(Opzione Mediterranea - Ancip 2006) .

Uno dei settori che hanno pagato di più le trasformazioni degli anni '80 è sicuramente quello del lavoro marittimo. Ci si trova davanti al paradosso di un settore storicamente fondamentale per la nostra economia diventato praticamente assente oggi sia nello scenario domestico che in quello internazionale. Un'assenza non reale (il settore numericamente è in crescita come abbiamo già detto) ma indotta e in qualche modo imposta: la deindustrializzazione e il mancato appuntamento con l'adeguamento delle infrastrutture porta a non essere, come Italia, protagonisti nella ridefinizione del comparto marittimo europeo e del lavoro ad esso connesso. La ragione di questa assenza è facile da spiegare. In realtà la deregulation nel nostro paese dell'intero settore portuale è, come abbiamo già scritto, in essere da più di 15 anni. Deregolamentazione contrattuale (e nessuno vero e proprio contratto collettivo fino a pochissimi anni fa che, anche se oggi esistente, in alcune realtà come il Porto di Genova non viene applicato) e precarietà, turni massacranti, uso intensivo di orari di straordinario spesso non retribuiti o retribuiti come ore normali, sicurezza in declino, nessuna assistenza ai lavoratori, frammentazione: un quadro desolante oggi per quella che era considerata una categoria particolare, quasi una "aristocrazia" del movimento operaio. Come dicevamo questo è avvenuto in particolare nel vecchio porto di Genova che non ha applicato il contratto collettivo. Contratto che è stato invece applicato a Voltri: un porto nato dalla volontà della FIAT, totalmente privatizzato, che ha assorbito un ingente massa di finanziamenti pubblici per divenire oggi proprietà di imprenditori olandesi. Voltri non è Genova, ne è totalmente scisso, urbanisticamente e commercialmente distante. Ai tempi della sua costruzione si ironizzava che la Fiat sentisse la necessità di costruire "un porto per Torino".

Di "aristocrazia operaia" se n'è parlato in particolare per lavoratori di una città: Genova. Con il nome di "camalli" - erano riuniti in una consorteria organizzata con più di mille anni di storia, i lavoratori del porto di Genova a partire dagli anni ottanta sono praticamente scomparsi. Oggi "camalli" è il nome di una trattoria o di un circolo Arci in vena di nostalgie, mentre il lavoro in porto si è frammentato e progressivamente trasformato in precario. Questa categoria si è infranta e dissolta nel corso degli anni '80, dopo una stagione di lotte e di sconfitte che hanno ridefinito la natura sociale e produttiva della stessa città. Da città produttiva e industriale a città terzializzata ma con ampie aree di disagio sociale, da grande porto con aspirazioni internazionali a semplice porto di interscambio (dopo venti anni di diminuzione dei tonnellaggi delle merci in transito solo ultimamente si nota una ripresa anche se molto parziale e legata quasi esclusivamente al terminal container Messina già citato), da area di cantieristica navale in pieno sviluppo a area in progressiva dismissione degli impianti industriali.

Quello che è successo e succede a Genova è quello che è successo continua a succedere all'intero paese. L'impatto della liberalizzazione del mercato del lavoro non si è trasformato in stimolo verso l'innovazione, la crescita reale, lo sviluppo non solo strettamente finanziario ma produttivo delle imprese. A Genova, forse, è iniziato ad accadere solo prima quello che sta accadendo oggi in tutta Italia. La mutazione verso il terziario "forzato" di una città a vocazione fortemente industriale e produttiva non è per forza un fattore positivo, anzi può rappresentare un indice di declino. E la trasformazione del mondo del lavoro (a Genova come nel resto d'Italia il 40% dei nuovi contratti sono precari) può determinare un cambiamento sociale non facilmente gestibile con tensioni e disagio, uno svuotamento culturale, lo svilimento di istituzioni pubbliche che hanno rappresentato la storia democratica di una città.

Una ricerca del 2003 redatta dalla Facoltà di Scienze Politiche della Università di Genova sul mondo del lavoro precario nel capoluogo ligure, fa emergere due nuove figure di lavoratori: il giovane che non passerà mai dal lavoro a tempo determinato a quello a tempo indeterminato ma che comunque è “in ascesa”, secondo le definizioni statistiche degli studiosi, e poi la figura dell’ultra-quarantenne “in uscita”. Inoltre lo studio indicava che Genova nel periodo di studio (2001/02) era fra le città con il più alto tasso di lavoratori a tempo determinato d’Italia. L’indagine, è necessario ricordarlo, è relativa al periodo immediatamente precedente all’attuazione della legge Biagi, e al conseguente fenomeno esplosivo di quello che viene ormai definito universalmente come “lavoro precario”. Ricordo che gli ultimi dati Istat parlano di circa il 40% (media nazionale) di nuovi lavoratori come precari. Se la tendenza indicata dalla studio dell’Università genovese si è protratta fino ad oggi, si può ragionevolmente pensare che quasi la metà dei lavoratori genovesi siano oggi assunti come precari.

Genova è un paradigma dell'Italia di oggi: il centro ancora imbellettato per il G8; il porto storico diventato uno dei salotti buoni grazie alle Colombiadi mentre il porto industriale e commerciale è decontestualizzato dal resto della città e connesso quasi solo esclusivamente con la sopraelevata che divide e non ricuce (senza parlare di Voltri che è "oltre" la città); la città vecchia in parte degradata e fatiscente e in piena emergenza sociale e in parte trasformata in area commerciale radical chic; i quartieri popolari costruiti a dispetto (quasi sempre in deroga) dell'evidente rischio idrogeologico; i lavoratori stranieri che affollano (in regola e clandestini) moli e cantieri, perché costano meno, perché sono "mobili" o forse solo "facilmente riciclabili" o meglio sfruttabili.

Genova è quella città che guarda dall'alto una notte il mare e una petroliera che brucia in rada: erano i primi anni '90 e la Haven esplose, bruciò e affondò davanti alla città, causando il più grave disastro ambientale mai verificatosi fino allora nel Mediterraneo. Genova guardava la Haven bruciare dall'alto delle sue colline, lontana: una città di mare che si era dimenticata il mare, una città di porto che rifiutava l'origine del proprio successo e benessere, una città di industria e commercio e lavoro che aveva dimenticato il proprio Dna.