martedì 9 gennaio 2007

Perché Genova


La situazione italiana è molto particolare. Anche perché di fatto un processo di deregolamentazione del settore e in particolare di quello dei dockers nostrani è in atto da almeno 15 anni. In Italia già esistono forme di "auto-assistenza", ad esempio nel terminal container genovese dell'armatore italiano Fratelli Messina (fra i più grandi di Europa e forse il maggiore in Italia), che oltre a gestire la propria flotta conduce direttamente anche le operazioni più strettamente portuali del trattamento delle merci. Inoltre realtà a "gabbie salariali" con contrattualizzazione disomogena e precaria sono state applicate per molto tempo anche nel principale porto di inter-scambio di container italiano, Gioia Tauro. Senza poi parlare delle privatizzazioni di sempre più ampi servizi strategici (manutenzione e sicurezza) di aziende portuali.

Tutto questo in un quadro economico di declino del settore che si sta vivendo proprio negli ultimi tempi. "Nei primi mesi del 2006 si deve però constatare che la crescita “arrembante” dei porti del Mediterraneo registrata allora si è in buona parte affievolita, in particolare in Italia. Al contrario, i porti del Nord Europa sembrano avere abbandonato il ritmo lento di incremento dei traffici degli anni ’90, confermando ulteriormente il loro ruolo di guida del continente. Guardando poi all’evoluzione del commercio estero mondiale si può apprezzare l’esplosione dei mercati dell’estremo oriente ed in particolare dell’intenso flusso di importazioni ed esportazioni tra i Paesi europei e quelli collocati in quell’area. A tal proposito si nota una spiccata vocazione dell’Olanda, quale porta di accesso per le merci provenienti o dirette verso l’Asia orientale, subito seguita dalla Germania e dal Belgio. I Paesi del Mediterraneo sembrano dunque non avere compreso, o quanto meno non approfittato in questi anni, del vantaggio competitivo legato alla loro posizione strategica lungo le principali linee di connessione marittima tra Asia, Europa e Nord America. Lo stallo del Mediterraneo non è comunque generalizzato. Infatti se, da una parte, l’Italia e la Francia sembrerebbero attraversare una fase di rallentamento, dall’altra, la Spagna sembra aver imboccato un percorso di progressivo miglioramento della propria dotazione logistica di supporto, con evidenti ricadute in termini di flussi aggiuntivi “conquistati""(Opzione Mediterranea - Ancip 2006) .

Uno dei settori che hanno pagato di più le trasformazioni degli anni '80 è sicuramente quello del lavoro marittimo. Ci si trova davanti al paradosso di un settore storicamente fondamentale per la nostra economia diventato praticamente assente oggi sia nello scenario domestico che in quello internazionale. Un'assenza non reale (il settore numericamente è in crescita come abbiamo già detto) ma indotta e in qualche modo imposta: la deindustrializzazione e il mancato appuntamento con l'adeguamento delle infrastrutture porta a non essere, come Italia, protagonisti nella ridefinizione del comparto marittimo europeo e del lavoro ad esso connesso. La ragione di questa assenza è facile da spiegare. In realtà la deregulation nel nostro paese dell'intero settore portuale è, come abbiamo già scritto, in essere da più di 15 anni. Deregolamentazione contrattuale (e nessuno vero e proprio contratto collettivo fino a pochissimi anni fa che, anche se oggi esistente, in alcune realtà come il Porto di Genova non viene applicato) e precarietà, turni massacranti, uso intensivo di orari di straordinario spesso non retribuiti o retribuiti come ore normali, sicurezza in declino, nessuna assistenza ai lavoratori, frammentazione: un quadro desolante oggi per quella che era considerata una categoria particolare, quasi una "aristocrazia" del movimento operaio. Come dicevamo questo è avvenuto in particolare nel vecchio porto di Genova che non ha applicato il contratto collettivo. Contratto che è stato invece applicato a Voltri: un porto nato dalla volontà della FIAT, totalmente privatizzato, che ha assorbito un ingente massa di finanziamenti pubblici per divenire oggi proprietà di imprenditori olandesi. Voltri non è Genova, ne è totalmente scisso, urbanisticamente e commercialmente distante. Ai tempi della sua costruzione si ironizzava che la Fiat sentisse la necessità di costruire "un porto per Torino".

Di "aristocrazia operaia" se n'è parlato in particolare per lavoratori di una città: Genova. Con il nome di "camalli" - erano riuniti in una consorteria organizzata con più di mille anni di storia, i lavoratori del porto di Genova a partire dagli anni ottanta sono praticamente scomparsi. Oggi "camalli" è il nome di una trattoria o di un circolo Arci in vena di nostalgie, mentre il lavoro in porto si è frammentato e progressivamente trasformato in precario. Questa categoria si è infranta e dissolta nel corso degli anni '80, dopo una stagione di lotte e di sconfitte che hanno ridefinito la natura sociale e produttiva della stessa città. Da città produttiva e industriale a città terzializzata ma con ampie aree di disagio sociale, da grande porto con aspirazioni internazionali a semplice porto di interscambio (dopo venti anni di diminuzione dei tonnellaggi delle merci in transito solo ultimamente si nota una ripresa anche se molto parziale e legata quasi esclusivamente al terminal container Messina già citato), da area di cantieristica navale in pieno sviluppo a area in progressiva dismissione degli impianti industriali.

Quello che è successo e succede a Genova è quello che è successo continua a succedere all'intero paese. L'impatto della liberalizzazione del mercato del lavoro non si è trasformato in stimolo verso l'innovazione, la crescita reale, lo sviluppo non solo strettamente finanziario ma produttivo delle imprese. A Genova, forse, è iniziato ad accadere solo prima quello che sta accadendo oggi in tutta Italia. La mutazione verso il terziario "forzato" di una città a vocazione fortemente industriale e produttiva non è per forza un fattore positivo, anzi può rappresentare un indice di declino. E la trasformazione del mondo del lavoro (a Genova come nel resto d'Italia il 40% dei nuovi contratti sono precari) può determinare un cambiamento sociale non facilmente gestibile con tensioni e disagio, uno svuotamento culturale, lo svilimento di istituzioni pubbliche che hanno rappresentato la storia democratica di una città.

Una ricerca del 2003 redatta dalla Facoltà di Scienze Politiche della Università di Genova sul mondo del lavoro precario nel capoluogo ligure, fa emergere due nuove figure di lavoratori: il giovane che non passerà mai dal lavoro a tempo determinato a quello a tempo indeterminato ma che comunque è “in ascesa”, secondo le definizioni statistiche degli studiosi, e poi la figura dell’ultra-quarantenne “in uscita”. Inoltre lo studio indicava che Genova nel periodo di studio (2001/02) era fra le città con il più alto tasso di lavoratori a tempo determinato d’Italia. L’indagine, è necessario ricordarlo, è relativa al periodo immediatamente precedente all’attuazione della legge Biagi, e al conseguente fenomeno esplosivo di quello che viene ormai definito universalmente come “lavoro precario”. Ricordo che gli ultimi dati Istat parlano di circa il 40% (media nazionale) di nuovi lavoratori come precari. Se la tendenza indicata dalla studio dell’Università genovese si è protratta fino ad oggi, si può ragionevolmente pensare che quasi la metà dei lavoratori genovesi siano oggi assunti come precari.

Genova è un paradigma dell'Italia di oggi: il centro ancora imbellettato per il G8; il porto storico diventato uno dei salotti buoni grazie alle Colombiadi mentre il porto industriale e commerciale è decontestualizzato dal resto della città e connesso quasi solo esclusivamente con la sopraelevata che divide e non ricuce (senza parlare di Voltri che è "oltre" la città); la città vecchia in parte degradata e fatiscente e in piena emergenza sociale e in parte trasformata in area commerciale radical chic; i quartieri popolari costruiti a dispetto (quasi sempre in deroga) dell'evidente rischio idrogeologico; i lavoratori stranieri che affollano (in regola e clandestini) moli e cantieri, perché costano meno, perché sono "mobili" o forse solo "facilmente riciclabili" o meglio sfruttabili.

Genova è quella città che guarda dall'alto una notte il mare e una petroliera che brucia in rada: erano i primi anni '90 e la Haven esplose, bruciò e affondò davanti alla città, causando il più grave disastro ambientale mai verificatosi fino allora nel Mediterraneo. Genova guardava la Haven bruciare dall'alto delle sue colline, lontana: una città di mare che si era dimenticata il mare, una città di porto che rifiutava l'origine del proprio successo e benessere, una città di industria e commercio e lavoro che aveva dimenticato il proprio Dna.

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