La seconda linea è rappresentata da una rigorosa inchiesta sul mondo della portualità oggi, sulla trasformazione del modo di produrre e di lavorare nel nostro paese.
Punto centrale il porto, la sua relazione con la città, la sua rete di scambi non solo mercantili. E il lavoro e di dove è finita l'aristocrazia operaia italiana.
Di "aristocrazia operaia" se n'è parlato in particolare per lavoratori di una città: Genova. Con il nome di "camalli" - erano riuniti in una consorteria organizzata con più di mille anni di storia, i lavoratori del porto di Genova a partire dagli anni ottanta sono praticamente scomparsi. Oggi "camalli" è il nome di una trattoria o di un circolo Arci in vena di nostalgie, mentre il lavoro in porto si è frammentato e progressivamente trasformato in precario. Questa categoria si è infranta e dissolta nel corso degli anni '80, dopo una stagione di lotte e di sconfitte che hanno ridefinito la natura sociale e produttiva della stessa città. Da città produttiva e industriale a città terzializzata ma con ampie aree di disagio sociale, da grande porto con aspirazioni internazionali a semplice porto di interscambio (dopo venti anni di diminuzione dei tonnellaggi delle merci in transito solo ultimamente si nota una ripresa anche se molto parziale e legata quasi esclusivamente al terminal container Messina già citato), da area di cantieristica navale in pieno sviluppo a area in progressiva dismissione degli impianti industriali.
Quello che è successo e succede a Genova è quello che è successo continua a succedere all’intero paese. L’impatto della liberalizzazione del mercato del lavoro non si è trasformato in stimolo verso l’innovazione, la crescita reale, lo sviluppo non solo strettamente finanziario ma produttivo delle imprese. A Genova, forse, è iniziato ad accadere solo prima quello che sta accadendo oggi in tutta Italia. La mutazione verso il terziario “forzato” di una città a vocazione fortemente industriale e produttiva non è per forza un fattore positivo, anzi può rappresentare un indice di declino. E la trasformazione del mondo del lavoro (a Genova come nel resto d’Italia il 40% dei nuovi contratti sono precari) può determinare un cambiamento sociale non facilmente gestibile con tensioni e disagio, uno svuotamento culturale, lo svilimento di istituzioni pubbliche che hanno rappresentato la storia democratica di una città.
Genova è un paradigma dell’Italia di oggi: il centro ancora imbellettato per il G8; il porto storico diventato uno dei salotti buoni grazie alle Colombiadi mentre il porto industriale e commerciale è decontestualizzato dal resto della città e connesso quasi solo esclusivamente con la sopraelevata che divide e non ricuce (senza parlare di Voltri che è “oltre” la città); la città vecchia in parte degradata e fatiscente e in piena emergenza sociale e in parte trasformata in area commerciale radical chic; i quartieri popolari costruiti a dispetto (quasi sempre in deroga) dell’evidente rischio idrogeologico; i lavoratori stranieri che affollano (in regola e clandestini) moli e cantieri, perché costano meno, perché sono “mobili” o forse solo “facilmente riciclabili” o meglio sfruttabili.
Genova è quella città che guarda dall’alto una notte il mare e una petroliera che brucia in rada: erano i primi anni ’90 e la Haven esplose, bruciò e affondò davanti alla città, causando il più grave disastro ambientale mai verificatosi fino allora nel Mediterraneo. Genova guardava la Haven bruciare dall’alto delle sue colline, lontana: una città di mare che si era dimenticata il mare, una città di porto che rifiutava l’origine del proprio successo e benessere, una città di industria e commercio e lavoro che aveva dimenticato il proprio Dna.
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