martedì 29 maggio 2007
Sulla stessa barca - voci dal porto di Trieste
Sulla stessa barca
voci dal Porto di Trieste
scritto e diretto da Pietro Orsatti
Continuazione ideale del percorso iniziato con il il documentario sul porto di Genova (De Mä - trasformazione e declino) questo reportage affronta la realtà del lavoro e degli appalti delle privatizzazioni nel porto di Trieste.
La privatizzazione degli scali italiani è stata fra le più radicali e profonde mai attuate in Italia. Una privatizzazione non governata: si è passati da un sistema porto dai grandi conflitti e dove aveva cittadinanza anche le più estreme forme di corporativismo come quelle dei lavoratori portuali delle Compagnie degli anni ’70, a un Far West senza un governo e con sempre meno diritti. A Trieste la Compagnia si è trasformata da ente di diritto pubblico a impresa passando da 1600 a 80 soci in meno di 15 anni. E contemporaneamente si è costruita una rete di circa 15 cooperative ciascuna in concorrenza con tutte le altre imprese operanti in porto. Se a metà degli anni ’80 un portuale portava a casa in media 3 milioni al mese oggi con fatica arriva ai 1000 euro.
La funzione di governo, il dominus del porto, è affidato all’Autorità Portuale, e le cariche come spesso accade in Italia sono di nomina politica. A volte può andare bene, può capitare che nell’allegra distribuzione delle poltrone una persona competente si ritrovi al posto giusto, altre volte invece ci si può trovare a casi quantomeno bizzarri: fino a tutto il 2006 il presidente dell’Autorità di Trieste è stata Marina Monassi (in quota al centro destra) biologa e nonostante precedenti incarichi al Ministero della Marina mercantile, senza l’adeguata esperienza nella gestione di un demanio complesso come quello di un porto e senza specifica formazione nel settore delle infrastrutture logistiche. Questi i punti dai quali decolla il racconto del del documentario.
E SU ARCOIRIS.TV puoi scaricarlo e vederlo in vari formati e puoi votarlo per mandarlo sul satellite
venerdì 13 aprile 2007
Morte bianca nel porto di Genova
balla di cellulosa del peso di circa due tonnellate, al terminal Forest di Ponte Somalia. Formenti era uno uno dei responsabili operativi del terminal.
Secondo le prime indagini compiute da Polmare e Asl, che e' l'organo di vigilanza in ambito di prevenzione e sicurezza sul lavoro, pare che Formenti stesse smarcando gli imballaggi per conto di un cliente o per una destinazione. In pratica, probabilmente, faceva un'operazione di controllo e non di movimentazione.
Le balle in quell'area erano accatastate una sull'altra per un'altezza complessiva di circa 8 metri. La pila da cui e' precipitata la balla che ha schiacciato il portuale era poggiata su dei supporti in legno mentre in un'altra zona erano impilati a pavimento.
Una balla e' improvvisamente piombata addosso a Formenti; quando e' intervenuto il primo soccorritore l'uomo era gia' morto.
Sul posto, oltre a Polmare, Asl e Capitaneria di Porto e' intervenuto anche il pm Walter Cotugno che ha disposto il sequestro sia dell'area in cui e' accaduto l'infortunio mortale sia di un'ampia parte del terminal dove vi e' il deposito di stoccaggio, un'area di 200 metri per 50 circa, dove sono accatastate tutte le balle. Questo, e' stato spiegato in Procura, al fine di verificare che i 'pacchi' di cellulosa siano in sicurezza.
LA GALLERIA DI FOTO DEL BLOCCO IN CORSO
blocco porto di genova |
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La morte di Enrico Formenti, il terminalista del porto di Genova deceduto oggi sotto una balla di cellulosa al terminal frutta, è l'ultimo di una lunga serie di infortuni che hanno colpito negli ultimi anni lo scalo ligure. I dati sono impressionanti. In nove anni si sono verificati ben 25 incidenti mortali solo fra i portuali: questo numero cresce in modo impressionante (24 decessi in 5 anni) se si aggiungono le altre morti avvenute sempre "in porto" ma in altre categorie: operai, marittimi di bordo, camionisti.
Un altro dato, riferito alla sola Compagnia Unica, la categoria numericamente più importante del porto di Genova con circa 1000 persone impiegate, non lascia dubbi sulla pericolosità del lavoro nei terminal oggi: una ricerca della Bocconi realizzata alla fine degli anni '90 parlava di circa 700 infortuni l'anno, di varia gravità, su mille lavoratori.
Quello della sicurezza, insieme al salario, rappresenta uno dei parametri più sensibili per la valutazione del reale stato della portualità italiana. Il numero di incidenti nel resto dei porti europei storici è di gran lunga inferiore a quello italiano, e un portuale greco, spagnolo o francese ha un trattamento economico tre volte maggiore di un suo collega italiano.
Il sistema portuale nel nostro paese è in crisi da almeno cinque anni. Mentre gli altri porti del Mediterraneo crescono in proporzione all'attuale incremento dei traffici di merci (si prevede il raddoppio entro il 2025), i porti italiani sono fermi, o in deficit, rispetto alle movimentazioni della fine degli anni '90. La crisi economica e strutturale del comparto logistico portuale si trasferisce nel progressivo degrado anche della qualità del lavoro, della sicurezza e dei diritti. "Se si dovessero applicare alla lettera le norme di sicurezza previste dalle normative internazionali – racconta Massimo Meucci, portuale e segretario di uno dei circoli di lavoratori di Prc a Genova – il porto, qualsiasi porto, si fermerebbe". Mentre molto spesso il lavoro non si ferma nemmeno davanti a incidenti mortali, come racconta Luca, un altro portuale: "Ho visto morire un ragazzo schiacciato fra due "ralle". Lo sai cosa hanno fatto? Ai tempi di mio padre avrebbero bloccato il porto, e invece hanno coperto la pozza di sangue con la segatura e hanno continuato a lavorare".
La sicurezza in porto è legata a numerosi fattori, dalla manutenzione allo stato delle navi da caricare e scaricare, dalle condizioni generali di lavoro all'uso di straordinari e "doppi turni". Il lavoro è diviso su quattro turni a coprire l'intero arco della giornata. Spesso, quando ci sono flussi di lavoro intensi, la "chiamata" è ravvicinata. Un turno, poi sei ore di riposo, un altro turno, altre sei ore e così via. Quando la turnazione è così intensa è inevitabile che la stanchezza e la concentrazione cali pericolosamente. E in questo caso è facile provocare un incidente o esserne vittima.
"Quello che manca sono le regole, delle regole vere – dichiara Bruno Rossi, sindacalista e ex dirigente della Compagnia Unica – Nei terminal, oggi, di fatto chi decide anche della sicurezza è soltanto l'impresa, che risponde esclusivamente alle logiche del profitto". E' la logica delle privatizzazioni, confermata e descritta anche dalla pubblicistica ufficiale.
"Gli Enti Portuali si sono ritirati da ogni funzione operativa, trasformandosi in Autorità Portuali e le Compagnie Portuali, che operavano come organismi "di fatto" di natura pubblica, sono diventate imprese di diritto privato – Si legge in Operazione Mediterraneo, documento dell'Ancip, l'associazione che raccoglie le compagnie portuali - mentre la gestione delle operazioni portuali è stata affidata a società private. E' difficile trovare nel contesto italiano un processo analogo di devolution, di privatizzazione e di apertura al mercato così radicale e contemporaneo".
Se oggi, dopo la morte di Formenti, il porto è bloccato lo si deve anche all'esasperazione e al disagio accumulato da molti lavoratori: già nei due giorni precedenti la tragedia si erano verificati altri quattro infortuni più o meno gravi. E non solo. Alcuni lavoratori si erano esposti personalmente proprio nelle scorse settimane per denunciare la situazione di degrado ricevendo intimidazioni e pressioni per ritirare le proprie dichiarazioni: si era arrivati addirittura a scritte intimidatorie in porto e in alcuni casi si è giunti a passi formali da parte delle aziende con minacce di provvedimenti disciplinari a chi aveva avuto il coraggio di parlare.
lunedì 26 marzo 2007
Non si ammazzano così neanche i camalli - da Left e Altern@tivamente
di Pietro Orsatti Reportage porto di Genova, realizzato durante la lavorazione del film “De Mä, trasformazione e declino”. La nave trasporta tubi di acciaio. Sono lì, sul fondo della stiva, in gran parte sciolti. Per raggiungerli bisogna calarsi per una scaletta ricavata sulla paratia, verticale. Si scende senza una sicurezza. Non ci sono imbragature o corde o moschettoni: si scende e basta. | |
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mercoledì 21 marzo 2007
lunedì 19 marzo 2007
DE MÄ – TRASFORMAZIONE O DECLINO
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Uno dei settori che hanno pagato di più le trasformazioni degli anni '80 è sicuramente quello del lavoro marittimo. Ci si trova davanti al paradosso di un settore storicamente fondamentale per la nostra economia diventato praticamente assente oggi sia nello scenario domestico che in quello internazionale. Un'assenza non reale (il settore numericamente è in crescita e si prevede praticamente il raddoppio del traffico container nel Mediterraneo entro il 2015/2020) ma indotta e in qualche modo imposta. In realtà la deregulation nel nostro paese dell'intero settore portuale è in essere da più di 15 anni. Deregolamentazione contrattuale (e nessuno vero e proprio contratto collettivo fino a pochissimi anni fa che, anche se oggi esistente, in alcune realtà come il Porto di Genova non viene molte volte applicato) e precarietà, turni massacranti, uso intensivo di orari di straordinario spesso non retribuiti o retribuiti come ore normali, sicurezza in declino, nessuna assistenza ai lavoratori, frammentazione: un quadro desolante oggi per quella che era considerata una categoria particolare, quasi una "aristocrazia" del movimento operaio.
Da queste premesse nasce il documentario “DE MÄ – TRASFORMAZIONE O DECLINO”, scritto e diretto da Pietro Orsatti con la produzione di SenzaMedia – progetto collettivo di comunicazione e la collaborazione di Arcoiris.tv, che lo renderà disponibile il streaming sul sito www.arcoiris.tv e manderà in onda sul canale Arcoiris.tv (Sky 916) il dibattito della presentazione avvenuta il 16 marzo a Genova.
DVD
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sabato 10 marzo 2007
giovedì 8 marzo 2007
comunicato stampa per la presentazione del 16 marzo 2007
Uno dei settori che hanno pagato di più le trasformazioni degli anni '80 è sicuramente quello del lavoro marittimo. Ci si trova davanti al paradosso di un settore storicamente fondamentale per la nostra economia diventato praticamente assente oggi sia nello scenario domestico che in quello internazionale. Un'assenza non reale (il settore numericamente è in crescita e si prevede praticamente il raddoppio del traffico container nel Mediterraneo entro il 2015/2020) ma indotta e in qualche modo imposta: la de-industrializzazione e il mancato appuntamento con l'adeguamento delle infrastrutture porta a non essere, come Italia, protagonisti nella ridefinizione del comparto marittimo europeo e del lavoro ad esso connesso.
La ragione di questa assenza è facile da spiegare. In realtà la deregulation nel nostro paese dell'intero settore portuale è in essere da più di 15 anni. Deregolamentazione contrattuale (e nessuno vero e proprio contratto collettivo fino a pochissimi anni fa che, anche se oggi esistente, in alcune realtà come il Porto di Genova non viene molte volte applicato) e precarietà, turni massacranti, uso intensivo di orari di straordinario spesso non retribuiti o retribuiti come ore normali, sicurezza in declino, nessuna assistenza ai lavoratori, frammentazione: un quadro desolante oggi per quella che era considerata una categoria particolare, quasi una "aristocrazia" del movimento operaio.
Questo è avvenuto in particolare nel porto di Genova e dove non è stato applicato il contratto collettivo. Contratto che è stato invece applicato a Voltri: un porto nato dalla volontà della FIAT, totalmente privatizzato, che ha assorbito un'ingente massa di finanziamenti pubblici per divenire oggi proprietà dell'autorità portuale di Singapore. Voltri non è Genova, ne è totalmente scisso, urbanisticamente e commercialmente distante. E mentre Voltri cresce quello di Genova sembra essere fermo al palo.
Da queste premesse nasce il documentario “DE MÄ – TRASFORMAZIONE O DECLINO”, scritto e diretto da Pietro Orsatti con la produzione di SenzaMedia – progetto collettivo di comunicazione e la collaborazione di Arcoiris.tv, che lo renderà disponibile il streaming sul sito www.arcoiris.tv e manderà in onda sul canale Arcoiris.tv (Sky 916) il dibattito della presentazione.
Attraverso il racconto corale dei lavoratori, sia di quelli che hanno visto la trasformazione che dei più giovani che in qualche modo l'hanno subita, viene mostrata questa realtà assolutamente sconosciuta sul piano nazionale.
domenica 25 febbraio 2007
comunicato stampa circolo lavoratori portuali
CIRCOLO DEI LAVORATORI PORTUALI E DEL TRASPORTO MERCI DI GENOVA
COMUNICATO STAMPA
IL CIRCOLO DEI LAVORATORI PORTUALI E DEL TRASPORTO MERCI DI GENOVA DI RIFONDAZIONE COMUNISTA INTERVIENE SULLA VICENDA DELLE INTIMIDAZIONI SUI LAVORATORI DEGLI ULTIMI GIORNI IN RELAZIONE ALLA PROSSIMA PRESENTAZIONE DEL FILM "DE MA - TRASFORMAZIONE O DECLINO"
Il Circolo del porto ha collaborato alla realizzazione del documentario "De Ma - Trasformazione o declino" per costringere tutti a misurarsi con i fatti, con la realtà a partire dalla condizioni di lavoro in porto. Quindi non siamo stupiti delle reazioni inconsulte e violente rivolte soprattutto contro un dirigente sindacale (minacciato anche con scritte intimidatorie) da parte di chi non immagina altra soluzione che continuare così: le ex compagnie portuali sono e si sono relegate al ruolo di imprese di lavoro interinale con l'aggravante che i soci non sono solo la variabile dipendente dell'impresa comune a tutte le cooperative (prendono se il bilancio e in attivo, mettono se è in passivo), ma nel nostro caso i soci sono anche la merce che viene venduta sul libero mercato, rinunciando così ad ogni forma di emancipazione del lavoro.
Il film in questione mostra tutto questo. Siamo certi che verrà presentato e distribuito come previsto, e in quel momento sarà inevitabile riconoscere il fallimento irrimediabile e concettuale dell'impresa. Da quel momento si lavori insieme per trovare soluzioni praticabili, come quel del resto praticate normalmente dai lavoratori portuali del resto d'Europa.
Il film affronta l'inefficienza complessiva del modello operativo portuale conseguenza inevitabile della ideologica rinuncia al ruolo di regia pubblica del porto; a questo proposito vorremmo segnalare ai disattenti media locali e non che l'unico treminal che cresce significativamente nel porto di Genova è il VTE di Voltri che non a caso è un terminal gestito dalla autorità portuale di Singapore, cioè da un ente pubblico che si guarda bene dal rinunciare a rivestire un modello produttivo, anzi, in questa veste colonizza gli altri scali.
www.circolodelportodigenova.org
circolo@circolodelportodigenova.org
Le foto delle scritte intimidatorie a Genova
sabato 24 febbraio 2007
De Ma - Storia di un film che qualcuno non vuole che esca
Tutto questo a fronte di una crisi, confermatasi ormai da sei anni almeno, dell'intero settore della portualità italiana che non riesce a reggere minimamente il confronto con i porti francesi e spagnoli. I dati parlano chiaro: 24 morti in porto in cinque anni; nell'ambito della Compagnia Unica (la mitica compagnia dei dockers genovesi) centinaia di incidenti all'anno su circa mille lavoratori; cattiva gestione del sistema portuale; autoproduzione (caso unico in tutta Europa) da parte dei terminalisti e armatori privati; cottimo; precarietà diffusa; mancata applicazione della legge 84/94 che prevede il contratto nazionale del lavoro portuale e l'istituto del mancato avviamento. Questi dati hanno trovato completa conferma nelle voci delle decine delle persone intervistate e delle immagini filmate durante la lavorazione.
Chiaramente mi aspettavo critiche, anche polemiche feroci: sono consapevole che in ogni caso il film ha per la prima volta svelato interamente un mondo assolutamente sconosciuto se non al ristretto ambito degli addetti ai lavori. Per questa ragione stavo cercando di organizzare una presentazione pubblica, invitando autorevoli interlocutori per aprire un dibattito aperto sull'iniziativa, e contemporaneamente stavo realizzando da alcune settimane piccole proiezioni private per calibrare al meglio il lavoro e ne ho messo parte (una versione completa a bassa risoluzione) su un indirizzo internet per raccogliere opinioni e contributi.
Ma non sono arrivati commenti o critiche, anzi. Quelle che sono arrivate sono state minacce e intimidazioni, sia verbali che scritte sui muri, ai lavoratori che avevano raccontato davanti alla telecamera la propria esperienza umana e lavorativa. Minacce chiare tese a far spaventare questi lavoratori, in particolare i giovani più esposti, per costringerli a fare un passo indietro, a "farsi togliere" dal film. La cosa più grave è che queste minacce sono state fatte sul posto di lavoro da altri lavoratori, e che le scritte sono comparse proprio nei locali della Compagnia Unica, addirittura una è stata anche posta nello spazio della bacheca ufficiale alla Chiamata, praticamente nel luogo più conosciuto e frequentato di questa sorta di "tempio" della classe operaia genovese. Scritte non generiche, ma con insulti e minacce e con il nome del destinatario in bella evidenza. Nomi di lavoratori, persone che hanno raccontato liberamente la propria condizione di lavoratori.
Una campagna assurda e vigliacca, una sorta di guerra preventiva e, questo il paradosso, ancor prima che venisse reso pubblico e presentato l'intero film.
Per questa ragione ho dovuto bloccare temporaneamente la presentazione di questa versione del film e sono tornato in montaggio: sto sostituendo le sequenze di quei lavoratori che, spaventati, si sono tirati indietro. Non li biasimo, anzi, fin dall'inizio ho sempre dichiarato a tutti che ero disponibile a ogni modifica funzionale alla loro tutela. Altri lavoratori, invece, hanno accettato di continuare, non vogliono retrocedere nonostante le gravissime pressione ricevute negli ultimi giorni.
Avevamo previsto la presentazione del film il 16 di marzo a Genova. In ogni modo cercheremo di mantenere l'impegno: lo dobbiamo soprattutto a quelle tante persone che hanno offerto il proprio volto e la propria voce all'obiettivo di una telecamera, e lo dobbiamo a tutti quei lavoratori che ogni giorno, in ogni ora del giorno della notte, in tuta e guanti rischiano la vita in porto, fra container e fasci di tubi di acciaio, pilastri di cemento e mezzi pesanti, gru e montagne di carbone e caolino. "Sono diventati come soldati per lavorare – mi ha raccontato un vecchio sindacalista che la trasformazione del porto l'ha vissuta tutta sulla propria pelle – vivono come bestie e si fanno male come bestie". Anche e soprattutto per loro è stato girato questo film.
venerdì 23 febbraio 2007
COMUNICATO STAMPA
COMUNICATO STAMPA
DOPO SETTIMANE DI PRESSIONI E INTIMIDAZIONI SUI LAVORATORI CHE AVEVANO RACCONTATO LA PROPRIA CONDIZIONE RITARDATA LA PRESENTAZIONE DI UN FILM SULLA REALTA' DEL PORTO DI GENOVA – CONFERMATO L'APPUNTAMENTO DEL 16 MARZO (data prevista per l'anteprima) DOVE VERRANNO PRESENTATE LE PARTI PIU' SIGNIFICATIVE DEL FILM.
“De Ma, trasformazione o declino”: questo il titolo del documentario sulla realtà del lavoro nel porto di Genova che doveva essere presentato il 16 marzo in anteprima e che l'autore, il regista Pietro Orsatti, ha temporaneamente bloccato davanti ad una vera e propria campagna di pressioni e intimidazioni su molti dei lavoratori portuali e dei testimoni che avevano raccontato nel film la propria vicenda umana e professionale.
“Si sono verificate numerose pressioni sul posto di lavoro soprattutto sui lavoratori più giovani e meno politicizzati e tutelati – racconta il regista – un film non vale un posto di lavoro, o un clima di questo tipo. Per questa ragione ho deciso con la produzione di sospendere per ora le presentazioni di questo documentario. E' paradossale questa vera e propria campagna preventiva: non è stata fatta ancora nessuna presentazione pubblica del prodotto, solo su internet, a bassa risoluzione, era disponibile da circa una settimana una versione non completa e che oggi è stata comunque ritirata. Ma le intimidazioni erano partite ancora prima che questa versione fosse disponibile: quello che è evidente è che in molti non vogliono che si racconti la realtà sulla sicurezza del lavoro, della precarietà e del declino del principale porto italiano”.
Nel film venivano raccontate, attraverso le voci di numerosi lavoratori, le drammatiche condizioni di lavoro dei portuali genovesi, e in particolari quelli della Compagnia Unica: 24 morti in cinque anni nel porto; solo in Compagnia unica una media annuale diverse centinaia di incidenti sul lavoro sui mille lavoratori; uso indiscriminato del lavoro a cottimo; precarietà diffusa e mancata applicazione della legge 84/94 che prevede, fra l'altro, il contratto nazionale per il lavoro portuale e l'istituto del mancato avviamento; assenza di una politica di gestione organica nelle aree portuali, di competenza dell'Autorità portuale, con conseguente degenerazione di tutte le principali attività di manutenzione e razionalizzazione del lavoro nei terminal.
“Non ritiro il film – racconta l'autore – e non rimando la data della sua presentazione. La necessità di tutelare quei lavoratori a rischio di discriminazioni gravissime prospettatesi in questi giorni, ci costringe soltanto ad alcuni ritocchi in montaggio: sostituire qualche voce quando si hanno centinaia di ore di film girato non è un problema”.
“La cosa più incredibile – conclude Orsatti – e che in realtà il film non vuole colpire una categoria o un'organizzazione come la Compagnia Unica, anzi. Dimostrando le enormi difficoltà che oggi attraversa la portualità in Italia, raccontando la trasformazione del settore e la drammaticità delle condizioni di lavoro si voleva contribuire soltanto a aprire una discussione realistica su quello che sta avvenendo da alcun anni a Genova. Cercare di bloccare il film, come si sta tentando di fare, dimostra solo che non si vuole che del porto se ne parli. Forse a qualcuno sta bene così”.
martedì 30 gennaio 2007
Radio Gold - Le vicende dei portuali di Genova in un film documentario
VAI A ASCOLTARE IL SERVIZIO SU RADIOGOLD
lunedì 29 gennaio 2007
Il film
domenica 28 gennaio 2007
Dalla rivista mensile MicroMega in edicola dal 12 gennaio
Il caporalato, camuffato da lavoro interinale, è entrato anche nelle Compagnie dei lavoratori portuali, un tempo simbolo della difesa dei diritti degli operai. Ormai anche il sindacato - spesso seduto nei cda delle Compagnie e delle agenzie di lavoro in affitto - mette al primo posto la produttività.
E intanto i lavoratori rischiano la vita ogni giorno.
Qualcuno l'ha già persa, come Luca Vertullo.
di MARCO PREVE
Un morto scomodo. Circondato da imbarazzi e silenzi, proprio nei giorni in cui il presidente della Repubblica invita a "spezzare la catena delle vittime del lavoro".
Se si vuole un segno forte, tangibile, e preoccupante, del malessere e dell'insofferenza che agitano larga parte del mondo del lavoro, quello che produce i fischi e le contestazioni ai leader del centro-sinistra e dei sindacati, allora val la pena di fare un giro sul fronte del porto.
L' universo dei camalli, quelli di Genova come di tutti gli altri scali italiani, dopo la rivoluzione forzata degli anni Novanta con la privatizzazione delle banchine, oggi è solcato da una serie di profonde contraddizioni. Da ultimo baluardo a difesa dei diritti degli operai, simboli dell'antifascismo, feroci accusatori dello sfruttamento dei lavoratori, oggi le Compagnie vivono una trasformazione in senso manageriale, con legami sempre più intrecciati con la politica, il sindacato istituzionale e la grande finanza, che rischiano, e anzi lo stanno già facendo, di corrodere l'antica autorità morale dei camalli.
(LEGGI L'intero articolo...)
Trailer del film
sabato 27 gennaio 2007
venerdì 26 gennaio 2007
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lunedì 15 gennaio 2007
"De mä", oltre il confine - articolo su Aternativ@mente
lunedì 15 gennaio 2007
di Alessandro Ambrosin
Intervista a Pietro Orsatti, regista del video inchiesta "De mä", trasformazione e declino - un film sulla fine del lavoro portuale a Genova.
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giovedì 11 gennaio 2007
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De Mä - di cosa parla il film
La seconda linea è rappresentata da una rigorosa inchiesta sul mondo della portualità oggi, sulla trasformazione del modo di produrre e di lavorare nel nostro paese.
Punto centrale il porto, la sua relazione con la città, la sua rete di scambi non solo mercantili. E il lavoro e di dove è finita l'aristocrazia operaia italiana.
Di "aristocrazia operaia" se n'è parlato in particolare per lavoratori di una città: Genova. Con il nome di "camalli" - erano riuniti in una consorteria organizzata con più di mille anni di storia, i lavoratori del porto di Genova a partire dagli anni ottanta sono praticamente scomparsi. Oggi "camalli" è il nome di una trattoria o di un circolo Arci in vena di nostalgie, mentre il lavoro in porto si è frammentato e progressivamente trasformato in precario. Questa categoria si è infranta e dissolta nel corso degli anni '80, dopo una stagione di lotte e di sconfitte che hanno ridefinito la natura sociale e produttiva della stessa città. Da città produttiva e industriale a città terzializzata ma con ampie aree di disagio sociale, da grande porto con aspirazioni internazionali a semplice porto di interscambio (dopo venti anni di diminuzione dei tonnellaggi delle merci in transito solo ultimamente si nota una ripresa anche se molto parziale e legata quasi esclusivamente al terminal container Messina già citato), da area di cantieristica navale in pieno sviluppo a area in progressiva dismissione degli impianti industriali.
Quello che è successo e succede a Genova è quello che è successo continua a succedere all’intero paese. L’impatto della liberalizzazione del mercato del lavoro non si è trasformato in stimolo verso l’innovazione, la crescita reale, lo sviluppo non solo strettamente finanziario ma produttivo delle imprese. A Genova, forse, è iniziato ad accadere solo prima quello che sta accadendo oggi in tutta Italia. La mutazione verso il terziario “forzato” di una città a vocazione fortemente industriale e produttiva non è per forza un fattore positivo, anzi può rappresentare un indice di declino. E la trasformazione del mondo del lavoro (a Genova come nel resto d’Italia il 40% dei nuovi contratti sono precari) può determinare un cambiamento sociale non facilmente gestibile con tensioni e disagio, uno svuotamento culturale, lo svilimento di istituzioni pubbliche che hanno rappresentato la storia democratica di una città.
Genova è un paradigma dell’Italia di oggi: il centro ancora imbellettato per il G8; il porto storico diventato uno dei salotti buoni grazie alle Colombiadi mentre il porto industriale e commerciale è decontestualizzato dal resto della città e connesso quasi solo esclusivamente con la sopraelevata che divide e non ricuce (senza parlare di Voltri che è “oltre” la città); la città vecchia in parte degradata e fatiscente e in piena emergenza sociale e in parte trasformata in area commerciale radical chic; i quartieri popolari costruiti a dispetto (quasi sempre in deroga) dell’evidente rischio idrogeologico; i lavoratori stranieri che affollano (in regola e clandestini) moli e cantieri, perché costano meno, perché sono “mobili” o forse solo “facilmente riciclabili” o meglio sfruttabili.
Genova è quella città che guarda dall’alto una notte il mare e una petroliera che brucia in rada: erano i primi anni ’90 e la Haven esplose, bruciò e affondò davanti alla città, causando il più grave disastro ambientale mai verificatosi fino allora nel Mediterraneo. Genova guardava la Haven bruciare dall’alto delle sue colline, lontana: una città di mare che si era dimenticata il mare, una città di porto che rifiutava l’origine del proprio successo e benessere, una città di industria e commercio e lavoro che aveva dimenticato il proprio Dna.
mercoledì 10 gennaio 2007
Per proiezioni, informazioni e contatti
Pietro Orsatti
orsatti.pietro@gmail.com - +39 349 4065977
SenzaMedia
senzamedia@gmail.com
martedì 9 gennaio 2007
Introduzione
Gli Stati Uniti e il loro modello sociale ed economico apparentemente possono sembrare molto remoti visti dalla nostra realtà, dall’Europa, Dall’Italia. Eppure il modello iper-liberistra sintetizzato da Rifkin nel “o nuoti o affoghi, da circa quindici anni si è trasformato nell’unico modello di riferimento per l’intera sistema occidentale trasformandosi da schema socio-economico di una determinata cultura e Nazione a una vera e propria ideologia globale. Non è un caso che lo stesso Wall Street Journal – che notoriamente non è una fanzine no global – a metà degli anni ’90 abbia paragonato il fenomeno della globalizzazione, e delle drammatiche ristrutturazioni interne alle grandi corporation multinazionali, alla rivoluzione culturale cinese, con tanto di processi sommari e sedute di auto-denuncia da parte di manager e quadri non allineati con il grande processo in atto a seguito della caduta del sistema del “male”, del modello politico economico del blocco sovietico.
Non è necessario appartenere o simpatizzare per i no global per rendersi conto che questa ideologia, il Mercato come panacea di ogni male, si è radicato anche da noi, se pur in una sua forma semplificata e spesso primitiva: la corsa alle privatizzazioni, alla mobilità, alle ristrutturazioni, alla riduzioni di vincoli e regole ha spianato in una manciata di anni più di 50 anni di welfare e architettura istituzionale e economica realizzati con la nascita della Repubblica per coniugare e rendere possibile il matrimonio – a volte azzardato, basti guardare molte delle distorsioni interne all’Iri e alla Cassa del Mezzogiorno – fra pubblico e privato.
Da questa premessa abbiamo sentito l’esigenza di individuare una metafora adeguata, un ambito narrativo simbolico forte, per descrivere la fase storica di trasformazione che stiamo vivendo, cercando anche di capire la particolarità, all’interno di un sistema globalizzato, del quadro italiano.
Questo progetto, le informazioni riportate nelle pagine che seguono, sono il frutto di un lavoro decennale di inchieste giornalistiche realizzate per testate come Diario, la Agenzia Dire, PopolareNetwork e la rivista Modus a partire dai primi anni '90.
Molte delle intuizioni, individuate a partire dal '97 in un'inchiesta/reportage nel porto di Genova realizzata per Diario, si sono dimostrate poi assolutamente vere: si stava già tendendo alla deregolamentazione del lavoro nei porti e nei cantieri navali, all'abbattimento delle già non rigide pratiche per la sicurezza sia della navigazione che del lavoro in molte aree portuali, all'applicazione delle "gabbie salariali" utilizzate ad esempio nella prima fase dello sviluppo del terminal di Gioia Tauro, l'uso sempre più indiscriminato del lavoro precario. Soprattutto emergeva la trasformazione sociale e urbanistica profonda di quella da sempre considerata la maggiore città a vocazione marittima e portuale d'Italia: Genova. Trasformazione oggi davanti agli occhi di tutti.
Trasformazione o declino? Da questa domanda parte il lavoro che ci proponiamo. Una domanda non soltanto retorica, ma fondata sulla vita, e la pelle, di chi in quella società urbana ci vive, che ha visto trasformarsi modi e forme di lavoro e di autorappresentazione sociale, che in gran parte ha visto cancellare in poco più di dieci anni la propria storia.
Ci sono già stati dei tentativi anche recenti di affrontare la "metafora" genovese, anche se solo attraverso una ricostruzione storica e affidandosi esclusivamente a materiali audiovisivi di repertorio: sto parlando di "Andiamo a Genova" di Silvia Savorelli realizzato con la C.G.I.L. il Centro confederale regione Liguria e la Camera del lavoro Metropolitana di Genova con la collaborazione dell'Archivio della Liguria fondazione Ansaldo. Si tratta di un lavoro rigoroso che però non affronta l'oggi, non racconta la trasformazione in atto, le speranze e le esigenze emerse negli ultimi dieci anni. E soprattutto non viene affrontato il dato simbolico che una realtà come quella di una città portuale in generale, e di Genova in particolare, assume nel fotografare la società non solo italiana ma anche europea.
Affrontare in particolare il mondo del lavoro dei portuali genovesi, significa raccontare non solo la storia di uno o più casi di lavoratori, ma entrare nel processo umano di relazioni familiari e sociali: l'insieme dei fattori che costituiscono l'ossatura di una città e di un paese. Dietro a ogni lavoratore c'è la storia di una persona che va ben oltre al ruolo che questa ha nella produzione, nell'economia, nella crescita o nel declino di un sistema di semplice mercato.
Nelle pagine che seguono vengono indicati, per linee generali, i fattori sui quali si basa questa proposta. Si potevano avanzare molte ipotesi di lavoro: quella di realizzare un'inchiesta sulla realtà del solo aspetto del lavoro portuale limitandosi a un reportage veloce di denuncia sulla deregulation nel settore occupazionale; oppure si poteva affrontare l'emergenza emersa negli ultimi mesi in relazione alle lotte dei lavoratori portuali in tutta Europa parlando di Genova solo come di una dei tanti porti coinvolti; si poteva anche limitare il progetto alle questioni della sicurezza e dell'ambiente; o ancora si poteva fare un'operazione di ricostruzione storica sul mondo dei camalli. In realtà tutte queste ipotesi sono valide, ma ognuna è limitata. Quello che si vuole realizzare è un documentario che racconti tutti questi aspetti all'interno di un unico percorso: narrare la trasformazione della nostra società attraverso lo sguardo di una città simbolo, centrale per la sua vocazione mercantile e produttiva, aperta al mondo attraverso il suo porto e profondamente ancorata alla storia europea e del Mediterraneo attraverso il mondo dei suoi lavoratori.
Pietro Orsatti
La situazione attuale - contesto economico e sociale
Non è la prima volta nell'ultimo anno che si arriva a forma di proteste anche estreme nei porti del nostro continente: a settembre 2005 le manifestazioni, i blocchi e gli scontri in Francia e in particolare a Marsiglia; a febbraio 2005 mesi di mobilitazione si sono trasformati nel blocco delle operazioni di carico e scarico anche di mezzi sui traghetti in Grecia e in particolare nel porto di Patrasso; manifestazioni, assemblee, scioperi si sono verificati anche in Olanda, Spagna e in Germania ad Amburgo.
I punti chiave della protesta, riassunti per grandi linee, e delle richieste dei lavoratori sono essenzialmente tre: contratto collettivo e forte limitazione all'uso di contratti stagionali e/o comunque precari; sicurezza del lavoro e assistenza in ambito infortunistico; riconoscimento e riaffermazione del diritto di rappresentanza sindacale. La direttiva proposta dal Parlamento Europeo, di fatto, intende intervenire, liberalizzando, "sull'accesso al mercato dei servizi portuali", quindi sulla loro liberalizzazione. Si tratta di una specie di "Bolkestein" destinata ai porti, che mira a legalizzare l'"auto-assistenza", cioè a permettere agli armatori di utilizzare il proprio personale marittimo per le operazioni in porto, a cominciare dal carico-scarico merci e dalla manutenzione. Trasferendo sulle banchine la giungla di supersfruttamento che impera a bordo con l'utilizzo di personale spesso senza diritti perché reclutato con il paravento di bandiere-ombra in Paesi poverissimi. A giudizio dei sindacati, si sarebbe trattato solo in apparenza di una liberalizzazione dei servizi: in realtà, ciascun Paese perderebbe il controllo dei propri moli e li trasformerebbe in una sorta di terra di nessuno dove avrebbero mano libera i grandi monopoli internazionali, magari con un pulviscolo di imprese paracadutate a sostituire le imprese di casa nostra. E' evidente che l'operazione ha tutto il sapore del dumping sociale e apre la strada a una recrudescenza di incidenti sul lavoro, perché la direttiva non prevede nessuna qualifica specifica per questi marittimi che si "auto-assistono", sulla nave ma anche a terra. Il testo presentato paradossalmente non soddisfa nemmeno più gli armatori, le società di carico-scarico e i gestori dei porti (che in Europa hanno situazioni molto diverse fra loro, poiché si spazia da porti pubblici a porti privati, passando per società autonome o municipali). Gli imprenditori rimproverano alla direttiva la troppa burocrazia e "l'insicurezza giuridica" che introdurrebbe. In effetti gli armatori si troverebbero costretti a dover sottostare a regole più severe in quei porti di nazioni che intervengono pubblicamente nella gestione dei porti stessi e quindi dando continuità a quel minimo di garanzie che ancora si incontrano, a volte, nella UE. Nonostante tutto anche nel testo della delibera rimane libertà ai paesi che gestiscono pubblicamente le attività portuali a non dover per forza privatizzare selvaggiamente settori così strategici anche a livello della sicurezza e ambientali delle arre territoriali dove i porti risiedono. Queste ultime tracce di regolamentazione che erano inserite nel testo presentato alla Ue, non potevano soddisfare del tutto chi da tempo chiede a gran voce la totale liberalizzazione del settore.
D'altronde, non sono stati solo i portuali a battersi contro la direttiva presentata dal Commissario europeo ai trasporti De Palacio, tornata all'esame dell'assemblea di Strasburgo per la seconda volta in neanche tre anni: basti dire che la proposta presentata dalla Commissione è stata impallinata da 532 no (mentre i sì sono stati appena 120 con 25 astenuti). Il provvedimento, dopo mesi e mesi di interminabile taglia e cuci per ripresentare un testo già bocciato in passato (2003), era tornato ad essere valutato come inaccettabile: fino al punto che Josep Borrell, presidente dell'Europarlamento bollando la "De Palacio 2" come "una direttiva riscaldata, che è stata messa in forno e servita nuovamente", ha dichiarato che la Commissione avrebbe dovuto nemmeno ripresentarla. Ma non è affatto scontato che non venga rielaborata una proposta nei prossimi mesi, vista anche la mole del business rappresentato dal trasporto marittimo e dalla fortissima lobby degli armatori/assicuratori/distributori presenti in Europa e dalle pressioni alle liberalizzazione avanzate sia in sede di WTO e sia dal Consiglio europeo di Lisbona nel 2000 che si è pronunciato per la creazione di regole assolute di mercato e di concorrenza in un settore così delicato.
La proposta di direttiva, poi, non è giustificata dalla necessità di intervenire per il rilancio e il risanamento del settore e infatti non si sta vivendo un periodo di crisi del comparto dei traffici marittimi e di conseguenza della possibile crescita dei porti europei. L'attività portuale è molto significativa in tutta l'Unione europea, che conta ad oggi 1116 porti. Il primo paese portuale è la Gran Bretagna, seguita dall'Italia e dalla Francia. Nei porti dell'Unione europea, con un traffico di più di 1,5 miliardi tonnellate movimentate all'anno, con solo in Italia 12mila dockers occupati, che rischiano in caso passi la linea avanzata in questi anni di perdere il lavoro o almeno di subire le conseguenze di una concorrenza senza pari da parte dei marittimi con contratti al ribasso. Una situazione che i lavoratori di tutta Europa hanno valutato come inaccettabile alla luce anche dell'enorme riduzione dei posti di lavoro attuata negli ultimi anni. Solo in Italia, infatti, si parla di una taglio occupazionale (tramite pensionamenti anticipati) di circa 20.000 unità.
"Fra il 1983 ed il 2001 oltre 20.000 lavoratori di quelle che allora venivano chiamate Compagnie portuali, Enti e Aziende Mezzi Meccanici sono usciti dal lavoro attraverso provvedimenti di prepensionamento. La forza lavoro all’interno dei Porti italiani, nell’arco di meno di vent’anni, è cambiata nella misura dell’80%, al punto che oggi l’età media degli addetti presenti nei porti può essere stimata intorno ai 30/35 anni. (...) Gli Enti Portuali si sono ritirati da ogni funzione operativa, trasformandosi in Autorità Portuali e le Compagnie Portuali, che operavano come organismi “di fatto” di natura pubblica, sono diventate imprese di diritto privato, mentre la gestione delle operazioni portuali è stata affidata a società private. E’ difficile trovare nel contesto italiano un processo analogo di devolution, di privatizzazione e di apertura al mercato così radicale e contemporaneo" (Opzione Mediterraneo - Ancip 2006).
Se prendiamo in considerazione soltanto l'area geografica per noi italiani più rilevante, il Mediterraneo, constatiamo che è in crescita sia la popolazione che la richiesta di materie prime e energia. Dal 2000 al 2025 L'Agenzia Europea per l'ambiente prevede una crescita pari al 40% del fabbisogno energetico nei paesi che si bagnano nel Mediterraneo a parità di indice di sviluppo. E la questione energetica significa petrolio. Dal 2000 a oggi, nonostante la crisi in Medio Oriente, il traffico marittimo di idrocarburi è sensibilmente aumentato. Si tratta di un settore enorme. Già negli anni '90 si movimentava nel bacino il 25% del traffico marittimo mondiale e oggi si sta per raggiungere la soglia del 30%. Analogo il tasso di crescita sia per il trasporto di altre merci che, anche se in modo meno sensibile, di passeggeri.
Perché Genova
La situazione italiana è molto particolare. Anche perché di fatto un processo di deregolamentazione del settore e in particolare di quello dei dockers nostrani è in atto da almeno 15 anni. In Italia già esistono forme di "auto-assistenza", ad esempio nel terminal container genovese dell'armatore italiano Fratelli Messina (fra i più grandi di Europa e forse il maggiore in Italia), che oltre a gestire la propria flotta conduce direttamente anche le operazioni più strettamente portuali del trattamento delle merci. Inoltre realtà a "gabbie salariali" con contrattualizzazione disomogena e precaria sono state applicate per molto tempo anche nel principale porto di inter-scambio di container italiano, Gioia Tauro. Senza poi parlare delle privatizzazioni di sempre più ampi servizi strategici (manutenzione e sicurezza) di aziende portuali.
Tutto questo in un quadro economico di declino del settore che si sta vivendo proprio negli ultimi tempi. "Nei primi mesi del 2006 si deve però constatare che la crescita “arrembante” dei porti del Mediterraneo registrata allora si è in buona parte affievolita, in particolare in Italia. Al contrario, i porti del Nord Europa sembrano avere abbandonato il ritmo lento di incremento dei traffici degli anni ’90, confermando ulteriormente il loro ruolo di guida del continente. Guardando poi all’evoluzione del commercio estero mondiale si può apprezzare l’esplosione dei mercati dell’estremo oriente ed in particolare dell’intenso flusso di importazioni ed esportazioni tra i Paesi europei e quelli collocati in quell’area. A tal proposito si nota una spiccata vocazione dell’Olanda, quale porta di accesso per le merci provenienti o dirette verso l’Asia orientale, subito seguita dalla Germania e dal Belgio. I Paesi del Mediterraneo sembrano dunque non avere compreso, o quanto meno non approfittato in questi anni, del vantaggio competitivo legato alla loro posizione strategica lungo le principali linee di connessione marittima tra Asia, Europa e Nord America. Lo stallo del Mediterraneo non è comunque generalizzato. Infatti se, da una parte, l’Italia e la Francia sembrerebbero attraversare una fase di rallentamento, dall’altra, la Spagna sembra aver imboccato un percorso di progressivo miglioramento della propria dotazione logistica di supporto, con evidenti ricadute in termini di flussi aggiuntivi “conquistati""(Opzione Mediterranea - Ancip 2006) .
Uno dei settori che hanno pagato di più le trasformazioni degli anni '80 è sicuramente quello del lavoro marittimo. Ci si trova davanti al paradosso di un settore storicamente fondamentale per la nostra economia diventato praticamente assente oggi sia nello scenario domestico che in quello internazionale. Un'assenza non reale (il settore numericamente è in crescita come abbiamo già detto) ma indotta e in qualche modo imposta: la deindustrializzazione e il mancato appuntamento con l'adeguamento delle infrastrutture porta a non essere, come Italia, protagonisti nella ridefinizione del comparto marittimo europeo e del lavoro ad esso connesso. La ragione di questa assenza è facile da spiegare. In realtà la deregulation nel nostro paese dell'intero settore portuale è, come abbiamo già scritto, in essere da più di 15 anni. Deregolamentazione contrattuale (e nessuno vero e proprio contratto collettivo fino a pochissimi anni fa che, anche se oggi esistente, in alcune realtà come il Porto di Genova non viene applicato) e precarietà, turni massacranti, uso intensivo di orari di straordinario spesso non retribuiti o retribuiti come ore normali, sicurezza in declino, nessuna assistenza ai lavoratori, frammentazione: un quadro desolante oggi per quella che era considerata una categoria particolare, quasi una "aristocrazia" del movimento operaio. Come dicevamo questo è avvenuto in particolare nel vecchio porto di Genova che non ha applicato il contratto collettivo. Contratto che è stato invece applicato a Voltri: un porto nato dalla volontà della FIAT, totalmente privatizzato, che ha assorbito un ingente massa di finanziamenti pubblici per divenire oggi proprietà di imprenditori olandesi. Voltri non è Genova, ne è totalmente scisso, urbanisticamente e commercialmente distante. Ai tempi della sua costruzione si ironizzava che la Fiat sentisse la necessità di costruire "un porto per Torino".
Di "aristocrazia operaia" se n'è parlato in particolare per lavoratori di una città: Genova. Con il nome di "camalli" - erano riuniti in una consorteria organizzata con più di mille anni di storia, i lavoratori del porto di Genova a partire dagli anni ottanta sono praticamente scomparsi. Oggi "camalli" è il nome di una trattoria o di un circolo Arci in vena di nostalgie, mentre il lavoro in porto si è frammentato e progressivamente trasformato in precario. Questa categoria si è infranta e dissolta nel corso degli anni '80, dopo una stagione di lotte e di sconfitte che hanno ridefinito la natura sociale e produttiva della stessa città. Da città produttiva e industriale a città terzializzata ma con ampie aree di disagio sociale, da grande porto con aspirazioni internazionali a semplice porto di interscambio (dopo venti anni di diminuzione dei tonnellaggi delle merci in transito solo ultimamente si nota una ripresa anche se molto parziale e legata quasi esclusivamente al terminal container Messina già citato), da area di cantieristica navale in pieno sviluppo a area in progressiva dismissione degli impianti industriali.
Quello che è successo e succede a Genova è quello che è successo continua a succedere all'intero paese. L'impatto della liberalizzazione del mercato del lavoro non si è trasformato in stimolo verso l'innovazione, la crescita reale, lo sviluppo non solo strettamente finanziario ma produttivo delle imprese. A Genova, forse, è iniziato ad accadere solo prima quello che sta accadendo oggi in tutta Italia. La mutazione verso il terziario "forzato" di una città a vocazione fortemente industriale e produttiva non è per forza un fattore positivo, anzi può rappresentare un indice di declino. E la trasformazione del mondo del lavoro (a Genova come nel resto d'Italia il 40% dei nuovi contratti sono precari) può determinare un cambiamento sociale non facilmente gestibile con tensioni e disagio, uno svuotamento culturale, lo svilimento di istituzioni pubbliche che hanno rappresentato la storia democratica di una città.
Una ricerca del 2003 redatta dalla Facoltà di Scienze Politiche della Università di Genova sul mondo del lavoro precario nel capoluogo ligure, fa emergere due nuove figure di lavoratori: il giovane che non passerà mai dal lavoro a tempo determinato a quello a tempo indeterminato ma che comunque è “in ascesa”, secondo le definizioni statistiche degli studiosi, e poi la figura dell’ultra-quarantenne “in uscita”. Inoltre lo studio indicava che Genova nel periodo di studio (2001/02) era fra le città con il più alto tasso di lavoratori a tempo determinato d’Italia. L’indagine, è necessario ricordarlo, è relativa al periodo immediatamente precedente all’attuazione della legge Biagi, e al conseguente fenomeno esplosivo di quello che viene ormai definito universalmente come “lavoro precario”. Ricordo che gli ultimi dati Istat parlano di circa il 40% (media nazionale) di nuovi lavoratori come precari. Se la tendenza indicata dalla studio dell’Università genovese si è protratta fino ad oggi, si può ragionevolmente pensare che quasi la metà dei lavoratori genovesi siano oggi assunti come precari.
Genova è un paradigma dell'Italia di oggi: il centro ancora imbellettato per il G8; il porto storico diventato uno dei salotti buoni grazie alle Colombiadi mentre il porto industriale e commerciale è decontestualizzato dal resto della città e connesso quasi solo esclusivamente con la sopraelevata che divide e non ricuce (senza parlare di Voltri che è "oltre" la città); la città vecchia in parte degradata e fatiscente e in piena emergenza sociale e in parte trasformata in area commerciale radical chic; i quartieri popolari costruiti a dispetto (quasi sempre in deroga) dell'evidente rischio idrogeologico; i lavoratori stranieri che affollano (in regola e clandestini) moli e cantieri, perché costano meno, perché sono "mobili" o forse solo "facilmente riciclabili" o meglio sfruttabili.
Genova è quella città che guarda dall'alto una notte il mare e una petroliera che brucia in rada: erano i primi anni '90 e la Haven esplose, bruciò e affondò davanti alla città, causando il più grave disastro ambientale mai verificatosi fino allora nel Mediterraneo. Genova guardava la Haven bruciare dall'alto delle sue colline, lontana: una città di mare che si era dimenticata il mare, una città di porto che rifiutava l'origine del proprio successo e benessere, una città di industria e commercio e lavoro che aveva dimenticato il proprio Dna.